La timidezza è una caratteristica di molti essere umani caratterizzata da una tendenza a non espandere adeguatamente la propria personalità. Può essere visto come un tratto di personalità improntato ad esitazione, ritrosia, impaccio e pudore superiori a quanto normalmente manifestano in analoghe situazioni altri soggetti. Oltre a questi aspetti propriamente caratteriali e comportamentali, si aggiungono manifestazioni di tipo psicosomatiche che accompagnano questi tratti della personalità, come ad esempio il rossore al viso, l’eccessiva sudorazione delle mani o della fronte, palpitazioni, senso di peso epigastrico, tutti segnali di un forte stato di ansia che accompagna quasi sempre questa condizione.
A livelli più elevati, la condizione può sfociare in una condizione di vera e propria fobia sociale, con attacchi di panico, dovuti al profondo senso di inadeguatezza nei rapporti sociali e al sentire gli altri come delle possibili minacce. La timidezza non va necessariamente vista come una patologia, anche perché è necessario fare delle dovute distinzioni nel grado e nella intensità delle risposte nei diversi contesti sociali.
Secondo le statistiche, in Giappone ben il 60% delle persone si dichiarano timide, negli Stati Uniti il 40% ed in Israele solo il 27%. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che la cultura giapponese impone rapporti molto rispettosi e formali con il prossimo, ed in Giappone è considerata una vergogna sbagliare, mentre in Israele si insegna a puntare al successo e che non è una vergogna sbagliare.
Questo ci spinge a comprendere come incidono fortemente gli aspetti educativi e culturali nello strutturarsi di questa caratteristica di personalità e dove elementi cognitivi rigidi, permettono di mantenere attivi quegli elementi fondamentali che sono causa del modo sbagliato di pensare, nel momento topico della relazione interpersonale.
Difatti, queste caratteristiche si riscontrano anche in altri soggetti, quali il balbuziente o il depresso. In queste personalità è forte un sentimento di autosvalutazione, una percezione negativa di sé, la quale spinge a credere che l’interlocutore lo potrà giudicare male, subendo passivamente la personalità altrui.
Il Dott. Antonio Bitetti, che ha condotto molte ricerche sulla personalità del balbuziente, ha messo a confronto stili di personalità timida e/o depressa con quella del balbuziente. Emerge chiaramente dalle sue ricerche ed esperienze terapeutiche che tutte e tre questi stili caratteriali hanno in comune, una tendenza a pensare male di se. Non perché non si abbiano qualità, ma per una tendenza a censurare le proprie dinamiche di fondo, la propria energia interiore, che rappresenta il carburante della vita. Quella che comunemente chiamiamo grinta.
E’ molto difficile, se non impossibile, riscontare il sintomo della balbuzie in una personalità forte e decisa. La balbuzie è il segno inconfutabile di una stile di pensiero indeciso ed ambivalente. Non ci si faccia ingannare da coloro che curano la balbuzie con tecniche superficiali, poiché loro orientano il tutto sulla parte superficiale del problema. La balbuzie è un’altra cosa, ed è bene saperlo.
Censurando la propria grinta, il timido, il balbuziente ed il depresso, limitano fortemente la propria capacità di espansione sociale, la possibilità di sperimentare una sana ricerca dell’altro, e quindi, soffrono il rapporto interpersonale ( La Balbuzie Approccio Integrato, Bitetti A.,IEB Editore,2010).
Di solito il timido evita il contatto oculare con l’interlocutore, si esprime con frasi brevi ed evita di porsi al centro dell’attenzione, perché teme moltissimo il giudizio degli altri, proprio perché tende a pensare male di sè e si abitua a tenere ferma questa idea.
La vita di relazione delle persone timide è in genere piuttosto povera, dal momento che esse preferiscono relazionarsi con gruppi ristretti di persone conosciute, con le quali si sentono a proprio agio, persone che in loro generano più sicurezza, di cui hanno meno timore di essere giudicati male. Può accadere però che in famiglia e in altri ambienti, che il timido ritiene più sicuri, la sua naturale inibizione relazionale, come forma di compensazione, possa trasformarsi in comportamento aggressivo, autoritario e prepotente.
L’eccessiva emotività inoltre può ostacolare in alcune occasioni particolarmente stressanti la lucidità di pensiero e la capacità di comunicare, come spesso accade per chi balbetta, che si potrebbe tranquillamente ritenere un parente stretto del timido. La fragile personalità che è alla base della timidezza crea inevitabilmente stati d’animo negativi, disturbi d’ansia e nei casi più gravi, depressione, isolamento sociale e disturbi psicosomatici, che limitano lo sviluppo delle potenzialità personali e la qualità della vita.
Il timido tuttavia può essere in molti casi particolarmente apprezzato per la sua personalità: per i suoi atteggiamenti cauti e sobri, per la sua tendenza a rispettare le regole, la sua attitudine empatica e le sue capacità di introspezione e di ascolto degli altri.
Secondo Alfred Adler, uno dei primi allievi di Freud, è normale che l’individuo durante la giovinezza si senta un po’ goffo ed inadeguato alle varie situazioni che gli si presentano, soprattutto per inesperienza. Questo primordiale senso di inferiorità dovrebbe tuttavia essere superato, secondo Adler, se si delineano almeno tre condizioni positive: il raggiungimento della maturazione psicofisica ed affettiva, la conquista di un buon livello di autonomia ed infine la consapevolezza delle proprie possibilità.
Uno studioso che per anni si è dedicato allo studio scientifico della timidezza è il Prof. Philip Zimbardo, il quale, partendo dalle riflessioni scaturite dal famoso esperimento condotto nella finta prigione dell’Università di Stanford, è arrivato a sostenere che la persona, tirandosi indietro dalla vita, si fa prigioniera di sé stessa, nascondendosi dentro una corazza, “scegliendo la sicurezza della silenziosa prigione della timidezza”. Elaborando questa metafora, a partire dall’esperimento della Stanford University, il Prof. Zimbardo ha pensato alla timidezza come ad una fobia che riguarda i rapporti sociali e che porta a sentire gli altri come una minaccia anziché un’opportunità. Con il Progetto Timidezza della Stanford University, iniziato nel 1977, Zimbardo ha potuto investigare le cause, le componenti, le conseguenze della timidezza, negli adulti e negli adolescenti, mettendo a punto anche degli interventi terapeutici.
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