Sul problema specifico della balbuzie, la ricerca scientifica da troppo tempo stenta a decollare. Per dirla tutta, in questo campo siamo molto lontani da un modello di ricerca interdisciplinare e su vasta scala che dovrebbe tendere a dare risposte adeguate sulle implicazione di aspetti cognitivi ed emozionali del linguaggio.
Sarebbe opportuno produrre nuovi dati statistici, che potrebbero rappresentare un importante serbatoio da dove attingere risposte adeguate per screening a breve, medio e lungo termine.
Sarebbe di notevole interesse per la ricerca anche un confronto tra le diverse scuole interpretative e metodologiche, per cercare di dare un nesso causale tra eventuali aspetti organici del problema, ovvero la predisposizione o la familiarità del disturbo e tutti quegli aspetti psicologici ed ambientali che condizionano la prestazione verbale in contesti diversi.
La direzione della ricerca scientifica
Se ci mettessimo nei panni di una famiglia che ha un figlio balbuziente, ci troveremmo a che fare con una realtà decisamente complessa in cui la proposta di intervento è soprattutto quella logopedica, almeno nelle strutture pubbliche.
I professionisti che operano con questa impostazione, da sempre quella di riferimento nell’ambito della sanità pubblica, certamente si impegnano a fare al meglio il loro lavoro, ma ammettono candidamente di non avere i requisiti formativi, oltre che interpretativi del disturbo che sono chiamati a trattare.
Anche lo specialista medico, punto di riferimento del settore, non ne sa di più e solitamente, per prassi, delega l’intervento alle logopediste. Manca la visione d’insieme da molti auspicata e fortemente richiesta, soprattutto da chi vive in prima persona la difficoltà del problema.
Persino il pediatra, che a volte è lo specialista di prima istanza consultato dalla famiglia non dice tanto, si sofferma a dare delle rassicurazioni. Ipotizzando che la balbuzie possa avere una evoluzione positiva con il passare del tempo, tende a tranquillizzare i genitori, nell’attesa che eventi occasionali modifichino in meglio la condizione.
Ma si sa che la balbuzie, è un dato statistico, una volta consolidata, cronicizzata, con l’entrata del bambino a scuola, tende a permanere nel repertorio comportamentale, fino ad incitarsi nella personalità, diventando quel disturbo complesso appena descritto.
Molto spesso, purtroppo, la balbuzie viene vista come un problema di secondo ordine, non degna di attenzione da parte di chi dovrebbe fare ricerca ad ampio raggio e che possiede le risorse umane e finanziarie idonee allo scopo.
Per il reale benessere del balbuziente, bambino o adulto che sia, per la serenità di chi gli sta vicino, la ricerca scientifica dovrebbe cercare di dare risposte importanti. Soprattutto cercando di creare conoscenze migliori del problema ed apportando strategie terapeutiche di ampio respiro e le più idonee ed efficaci, per non imprigionare il soggetto balbuziente in una condizione di sfiducia e di incertezza sul suo futuro.